C’è un’Italia che vive con il respiro trattenuto. Che ha paura perfino di nominare la morte. La nasconde, la rimuove, la espelle dai suoi discorsi pubblici come fosse un’oscenità. Eppure la morte non è mai oscena. Lo è il silenzio codardo che la circonda. Lo è la viltà di chi governa senza il coraggio di guardarla negli occhi. Lo è lo Stato, quando si volta dall’altra parte, lasciando soli i suoi figli più fragili proprio nel momento estremo, nel momento decisivo: quando non c’è più nulla da desiderare, se non la libertà di finire con dignità.
Daniele Pieroni è morto il 17 maggio del 2025, a Siena, la sua morte è stata resa nota oggi dall’associazione Luca Coscioni. È morto come voleva morire. Non perché la morte fosse il suo desiderio – ma perché la vita, per come gli era rimasta, non lo era più. Scrittore, musicista, malato di Parkinson in stato avanzato, legato a una PEG per ventuno ore al giorno, Daniele non aveva più voce, né fame, né corpo. Ma aveva ancora un pensiero lucido. E soprattutto, aveva una volontà. L’ha esercitata. E l’ha affermata. In un Paese dove persino voler morire è un atto di resistenza. Non era un malato qualunque. Era un uomo di cultura, di parole e di suono. Aveva composto, scritto, vissuto con l’arte addosso. E proprio per questo, forse, ha saputo trasformare anche il suo morire in una forma di espressione. In un messaggio. In un’opera ultima, rivolta a tutti noi.
Pieroni è il primo cittadino italiano ad aver scelto il suicidio assistito secondo la legge regionale toscana, approvata a febbraio e impugnata dal governo Meloni appena un mese dopo. Ma la legge, nonostante il ricorso, è rimasta in vigore. Così, dopo quasi due anni di attesa, di rimpalli, di omissioni, di silenzi colpevoli, finalmente lo Stato ha fatto – per una volta – ciò che deve: ha riconosciuto il diritto di morire come espressione della libertà di vivere.
Nella sua stanza, circondato da chi amava, Daniele ha premuto un pulsante. Tre minuti dopo, il suo cuore si è fermato. Non un atto di fuga. Non una resa. Ma un gesto. Umano. Consapevole. Politico. Sì, politico. Perché quando un uomo libero sceglie la propria morte in un Paese che non ha ancora scelto la propria civiltà, sta dicendo molto più di quanto i partiti abbiano mai osato dire. Sta dicendo che esiste un confine, e che oltre quel confine, lo Stato non può – non deve – interferire. Sta dicendo che l’autodeterminazione non è un favore concesso, ma un diritto inalienabile. Sta dicendo che la pietà non è un’opzione clericale, ma una conquista laica.
Daniele ha mostrato con il suo ultimo atto ciò che l’Italia nasconde da anni: la sua indecisione, il suo perbenismo, la sua codardia morale. La sentenza della Corte costituzionale che dal 2019 ha reso legale la morte assistita in alcuni casi è rimasta per lo più lettera morta, in assenza di una legge nazionale. E nel frattempo decine di italiani – persone vere, con nomi e famiglie – hanno dovuto vivere, e morire, in attesa che lo Stato prendesse una decisione. Alcuni sono morti prima che quella decisione arrivasse.
Ecco allora il senso della disobbedienza civile. Felicetta Maltese, attivista dell’associazione Luca Coscioni e presente al fianco di Pieroni nel momento finale, è sotto processo per aver aiutato, sostenuto, accompagnato altre persone come lui. Eppure è proprio grazie a questi atti, apparentemente illegali ma profondamente morali, che la civiltà fa un passo avanti. Come già accaduto per aborto, divorzio, diritti civili. Tutto ciò che oggi consideriamo normale è nato dalla disobbedienza di ieri.
Il governo Meloni ha impugnato la legge toscana in nome della «centralità dello Stato». Ma quale Stato? Quello che tace? Che non legifera? Che delega alla sofferenza il compito di decidere? Quello che nega ai malati il diritto di scegliere il proprio fine vita, ma si gloria di tutelare la famiglia e la tradizione? Uno Stato che predica la vita senza sapere cosa sia davvero vivere. Nel frattempo, il potere esecutivo promette – forse – una legge futura. Forse. Ma che legge sarà? Una legge per impedire, per moralizzare, per convertire la sofferenza in martirio? Oppure una legge che finalmente riconosca il principio primo della modernità: che ogni uomo è padrone del proprio corpo, della propria coscienza, e della propria morte?
E qui, forse più che in altri ambiti, si misura il fallimento della laicità dello Stato, soprattutto nella medicina. Ancora oggi in troppi ospedali italiani la volontà del paziente viene cancellata dall’obiezione di coscienza del medico. Accade per l’aborto, per le cure palliative, per la sedazione profonda, per il suicidio assistito. Ma la medicina pubblica – quella che si finanzia con le tasse di tutti – non può essere ostaggio del credo di pochi. La coscienza individuale è sacra, ma la legge è uguale per tutti. E quando una legge non c’è, l’obiezione diventa potere. E il potere, lo sappiamo, non è mai neutro. La morte assistita non è una scorciatoia. È un cammino. Un percorso fatto di domande ultime, di lacrime trattenute, di scelte solitarie e condivise. È un atto di verità. E la verità – come il dolore – non va mai censurata. Va guardata in faccia. Senza infingimenti. Senza crociate ideologiche. Senza cinismi burocratici.
Daniele ha fatto la sua parte. Con dignità. Con forza. Con lucidità. Ora tocca a noi. Tocca a questo Paese decidere se restare immobile, o imparare a guardare la morte non come un tabù, ma come una parte del vivere. Tocca alla politica capire se vuole governare o obbedire a vecchie paure. Tocca alla cultura – se ancora esiste – dire qualcosa che non sia solo retorica. In un’epoca in cui tutto si consuma nell’istante e nel rumore, Daniele Pieroni ci ha lasciato in silenzio. Un silenzio pieno. Un silenzio che dice più di mille proclami. E in quel silenzio, forse, si nasconde una verità che questo Paese ha smesso di ascoltare: che non c’è libertà senza responsabilità, e non c’è civiltà senza compassione. Ma forse è proprio questo che ci fa più paura: che nella libertà di morire, ci sia nascosta una lezione troppo grande su come vivere.
Di Francesco Vilotta