Applausi, bandiere, dichiarazioni entusiaste e una parola che ritorna come un ritornello: orgoglio. Da New Delhi arriva il riconoscimento che l’Italia inseguiva da anni: la cucina italiana è ufficialmente entrata nella lista dei Patrimoni culturali immateriali dell’umanità dell’Unesco. La decisione è stata presa all’unanimità dal Comitato intergovernativo, che ha esaminato 60 dossier provenienti da 56 Paesi. Nel documento ufficiale la cucina italiana viene definita una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, un modo per prendersi cura di sé e degli altri, per esprimere amore e per riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno spazio per condividere la loro storia e raccontare il mondo che li circonda.
La notizia è stata accolta da un lungo applauso nella sala dei lavori. Secondo l’Unesco, cucinare all’italiana favorisce l’inclusione sociale, promuove il benessere e offre un canale permanente per l’apprendimento tra generazioni diverse. La pratica culinaria viene descritta come un’attività comunitaria che mette al centro l’intimità con il cibo, il rispetto per gli ingredienti e i momenti condivisi attorno alla tavola. È una cucina radicata nelle ricette anti-spreco, nella trasmissione di sapori, abilità e ricordi attraverso le generazioni, con ruoli perfettamente intercambiabili tra giovani e anziani, capace di superare barriere culturali e generazionali.
Sul piano politico, l’annuncio è stato immediatamente rivendicato come un successo identitario. Giorgia Meloni ha parlato di un primato mondiale, sottolineando come l’Italia sia il primo Paese a ottenere questo riconoscimento per la propria cucina. Una affermazione che contiene una verità, ma non la racconta tutta. È vero infatti che la cucina italiana è la prima a essere riconosciuta nella sua interezza come sistema culturale complessivo, ma l’Italia entra in un club che già comprende altri grandi patrimoni gastronomici mondiali. Nel 2010 erano già stati iscritti il pasto gastronomico dei francesi e la cucina tradizionale messicana, mentre nel 2013 sono stati riconosciuti sia la pratica coreana di preparare e condividere il kimchi sia la cucina tradizionale giapponese. Il primato italiano esiste, ma si colloca in un panorama già popolato da eccellenze riconosciute.
Alla base del risultato c’è un lavoro lungo e articolato, durato decenni. Il dossier di candidatura, curato dal giurista Pier Luigi Petrillo, dimostra – come sottolinea lo stesso Unesco – gli sforzi significativi compiuti dalle comunità negli ultimi sessant’anni, in particolare da organismi rappresentativi chiave come la rivista La Cucina Italiana, l’Accademia Italiana della Cucina e la Fondazione Casa Artusi. Un lavoro diffuso, stratificato, che non nasce da una singola iniziativa istituzionale ma da una rete di soggetti che hanno costruito nel tempo una coscienza culturale attorno al cibo come bene collettivo.
Con questa iscrizione, l’Italia consolida anche un altro dato che la distingue a livello internazionale. Su 21 tradizioni iscritte nella Lista dei patrimoni culturali immateriali, ben 9 sono riconducibili al settore agroalimentare. Oltre alla cucina italiana nel suo insieme, figurano già l’arte dei pizzaiuoli napoletani, la dieta mediterranea, la transumanza, la coltivazione della vite ad alberello dello zibibbo di Pantelleria, la cava e cerca del tartufo, la costruzione dei muretti a secco in agricoltura, il sistema irriguo tradizionale e l’allevamento dei cavalli lipizzani. Un primato numerico che racconta molto del legame profondo tra il Paese e la dimensione rurale, gastronomica e paesaggistica.
Il senso di questo riconoscimento va però oltre i numeri e oltre le bandiere. L’Unesco non certifica un ricettario, ma una pratica viva che ogni giorno prende forma nelle cucine, nei mercati, nelle trattorie, nelle case. Certifica una cultura che non è solo consumo, ma relazione, memoria, appartenenza. La cucina come linguaggio universale, come gesto quotidiano che unisce generazioni, famiglie, territori e perfino identità lontane. È questo l’aspetto che emerge con più forza dal testo dell’Unesco: il valore sociale del cucinare, prima ancora del valore gastronomico.
Non è un caso che nel documento si parli di condivisione, di intimità con il cibo, di rispetto per gli ingredienti. La cucina italiana viene letta come un sistema culturale aperto, che si evolve senza perdere le proprie radici, che trasmette non solo sapori ma anche visioni del mondo. In questo senso il riconoscimento assume una dimensione che va ben oltre la retorica del made in Italy e dell’eccellenza esportabile, toccando il cuore del modo in cui gli italiani si rappresentano e vengono rappresentati nel mondo.
Il passaggio a New Delhi segna quindi una tappa simbolica importante, ma non conclusiva. L’Italia entra ufficialmente in una lista prestigiosa che raccoglie 788 tradizioni viventi da ogni angolo del pianeta. Un elenco che non fotografa il passato, ma riconosce pratiche che continuano a trasformarsi. La cucina italiana viene così consegnata a una dimensione globale, con tutte le responsabilità che questo comporta: tutela, trasmissione, rispetto delle differenze territoriali, difesa dei saperi e dei gesti che la rendono unica.
Tra esultanze politiche, orgoglio nazionale e precisazioni necessarie, resta un dato difficile da smentire: la cucina italiana non è più soltanto un patrimonio percepito, ma un patrimonio ufficialmente riconosciuto come bene culturale dell’umanità. Un passaggio che cambia lo statuto simbolico del cibo italiano e che, inevitabilmente, lo espone ancora di più allo sguardo, alle aspettative e alle semplificazioni del mondo. Ma che, allo stesso tempo, certifica una storia fatta di tavole apparecchiate, di mani che impastano, di ricette che viaggiano e di tradizioni che continuano a vivere.







