Covid, 5 anni fa i primi casi e il 60% riscontrano ancora sintomi

Pazienti affetti da Sars-CoV-2 in terapia intensiva

Sono già passati cinque anni dall’inizio del Sars-CoV-2 e da quel triste periodo pandemico che ha colpito il mondo intero: segnato da emergenze sanitarie, terapie intensive al completo, pericolosi focolai (come quello di Codogno), milioni di morti, famiglie spezzate, medici, infermieri e OSS sempre operativi.

L’epidemia era in continua evoluzione, incuteva molta paura e sconforto. Ogni ospedale o risorsa sanitaria era fondamentale per aiutare ogni singolo ammalato nella sua guarigione. Quando, in quel gennaio 2020, si iniziavano a registrare i primi casi, si ricorda il ruolo fondamentale nella gestione iniziale dell’emergenza, dell’Ospedale Spallanzani di Roma dove, il 29 gennaio 2020, venne ricoverata la coppia cinese proveniente da Wuhan – Xiangming Liu e Yamin Hu.

A distanza di 5 anni, il 60% delle persone ricoverate per Covid nei primi mesi della pandemia presenta ancora sintomi e disagi. Questo è stato rilevato da un gruppo di ricercatori italiani nel progetto Pascnet, che ha esaminato i dati clinici di oltre 1.200 pazienti per studiare l’impatto della Pasc (sequele post-acute da infezione da Sars-CoV-2) e le sue conseguenze sul sistema sanitario lombardo. L’obiettivo del progetto, coordinato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, era di approfondire le caratteristiche cliniche della malattia e migliorare la comprensione dei suoi effetti.

L’analisi ha evidenziato che 6 pazienti su 10 hanno sviluppato sindrome post-Covid, con sintomi come cefalee, insonnia, difficoltà respiratorie, alterazioni metaboliche e disturbi neurologici. Tra i principali fattori di rischio per la sindrome ci sono l’età avanzata, il fumo, l’alcol e la presenza di altre patologie.

Il Covid-19 ha anche avuto un impatto significativo e globale sulla salute mentale, con conseguenze che si sono manifestate in modo diverso nelle persone, a seconda della loro situazione personale e sociale. Tra i principali sintomi psicologici ritroviamo l’ansia, stress e disturbi del sonno. La paura del contagio, l’incertezza sul futuro e le continue restrizioni hanno generato un costante stato di allerta, causando difficoltà nel gestire la vita quotidiana. La paura di ammalarsi o di perdere i propri cari ha portato molte persone a vivere in uno stato di ansia cronica, con effetti sulla qualità della vita.

La depressione nella popolazione è aumentata, in gran parte a causa dell’isolamento sociale e della perdita di routine. Il lockdown e le limitazioni sociali hanno privato molte persone della possibilità di interagire con gli altri, portando a sentimenti di solitudine e frustrazione. Il cambiamento radicale delle abitudini, la perdita di eventi sociali e professionali importanti hanno contribuito a generare un senso di impotenza e disperazione in molti.

Con l’obbligo di restare a casa, molte persone hanno dovuto convivere per lunghi periodi con la stessa cerchia di familiari o coinquilini, creando situazioni di conflitto. In alcuni casi, la convivenza forzata ha anche portato a un aumento della violenza domestica, mentre in altri casi le persone hanno vissuto la separazione dai propri cari come una grande fonte di stress.

Il lutto è stato vissuto in modo particolarmente traumatico, in quanto molte persone non hanno potuto assistere i propri cari durante la malattia o partecipare ai rituali di sepoltura. Questo ha creato una forma di lutto non condiviso, con un dolore che è stato spesso vissuto in solitudine, senza il supporto della comunità o della famiglia.

A causa della solitudine e delle restrizioni si è riscontrato inoltre un forte aumento delle dipendenze infatti alcune persone hanno ricorso a comportamenti non salutari come l’abuso di alcol, droghe, cibo o il gioco d’azzardo.

La pandemia ha gravato soprattutto su bambini e adolescenti nel periodo più importante della loro istruzione. La chiusura delle scuole, l’interruzione delle attività extracurriculari, e la perdita di contatti sociali hanno avuto un impatto diretto sul loro benessere psicologico, aumentando i casi di ansia e depressione tra i più giovani.

Oggi, a ricordare quelle giornate buie e silenziose, in cui ogni balcone degli Italiani era adornato da uno striscione con su scritto “Andrà tutto bene”, è l’ex Direttore dell’Ospedale Spallanzani di Roma – Francesco Vaia: “abbiamo imparato sulla nostra pelle cosa significa la globalizzazione, anche sanitaria, ovvero guardare oltre il nostro cortile. Abbiamo imparato che tutto ciò che accade in luoghi apparentemente lontani, ma oggi cosi vicini, ci riguarda. Ora sappiamo che l’ impreparazione di un paese fa danni gravi e come ogni tragedia dovremmo fare in modo che non accada più”.

Vaia lancia poi un appello alla politica: “non dimentichiamo il personale sanitario. Gli operatori non sono mai stati degli angeli ma soltanto persone che hanno svolto il loro lavoro ma è arrivato il momento di mettere mano, per davvero, ad una rivalutazione di tutte le figure professionali sanitarie e sociosanitarie, ad una loro migliore retribuzione e ad una riflessione sulla attività intramoenia che, così come è oggi, accanto alle liste d’attesa anche da questa prodotte, sono la vera vergogna di questo tempo”.

Come ha dichiarato ad Adnkronos Enrico Girardi, Direttore Scientifico dell’Inmi Spallanzani di Roma, fu all’epoca Direttore del Dipartimento di Epidemiologia clinica: “L’interesse scientifico per il Sars-CoV-2 rimane vivo ed elevato con studi e ricerche che vanno avanti, anche se la percezione comune e dei media è che non ci sia più e tutto sia risolto. Quello che resta, dal nostro punto di vista, è che essendo stata la prima pandemia in un mondo con elevati livelli tecnologici possiamo capire tantissimo da ciò che è successo. Abbiamo dettagli importanti su come si è svolta, cosa è stato fatto, cosa ha funzionato e quali gli strumenti su cui prepararci. Da un punto di vista scientifico e di organizzazione sanitaria la verità enorme è che c’è ancora molto da imparare”.

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